Rassegna stampa

Gli articoli usciti sui giornali e le news su MoRe Impresa Festival


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Alfonso Fuggetta sarà nostro ospite il 30 novembre. Per iscriversi e partecipare all’evento è sufficiente cliccare qui

Direttore scientifico e amministratore delegato di Cefriel, il centro di innovazione digitale del Politecnico di Milano, Alfonso Fuggetta è tra le voci più autorevoli in Italia in ambito di digitalizzazione, innovazione e imprese. Nel suo ultimo libro “Un bel lavoro” (Egea 2023) affronta un tema cruciale per il futuro del paese: come restituire senso e significato al nostro lavoro. La nostra intervista.

Professor Fuggetta, perché è diventato così essenziale dare senso al lavoro che svolgiamo?
«Negli ultimi anni, e in particolare nel post pandemia, abbiamo assistito a un fenomeno definito da alcuni come “Great Resignation”, grandi dimissioni, che hanno evidenziato non tanto l’intenzione di smettere di lavorare, ma il desiderio di cambiare lavoro o realtà con cui si collabora. Questo ci ha costretti a chiederci il perché le persone oggi, più facilmente che in passato, decidano di cambiare lavoro. E la risposta probabilmente sta nel fatto che sempre più si desidera un lavoro che abbia un senso, un significato, e il cui risultato sia di valore per la comunità e la società. Le persone vogliono lavorare in imprese che svolgono un ruolo positivo nella comunità nella quale operano. Il lavoro diventa, quindi, “un bel lavoro” quando ci sono alcuni elementi che lo contraddistinguono e che nel libro ho riassunto in dieci punti essenziali. Il lavoro deve avere senso, essere di qualità, avere un impatto positivo, generare valore, essere sicuro e flessibile e deve lasciare spazio alle ambizioni e ai sogni di ogni individuo».

Lei evidenzia anche una diminuzione dell’identificazione con il lavoro e il desiderio di ridurre il tempo dedicato al lavoro a favore delle relazioni sociali e degli hobby. Come pensa che le imprese italiane possano affrontare questa sfida e creare un ambiente di lavoro più stimolante?
«Nel libro c’è anche una domanda finale provocatoria: abbiamo ancora bisogno di lavorare? La risposta è positiva proprio perché il lavoro è una dimensione della nostra vita nella quale esprimiamo e valorizziamo la nostra creatività e capacità realizzativa. È un’occasione di crescita non solo professionale, ma anche culturale e umana. Quello che possono fare le imprese, allora, è creare e far crescere contesti in cui le persone possono crescere professionalmente, culturalmente e umanamente. Un lavoro di qualità deve essere riconosciuto e valorizzato, non solo dal punto di vista economico, e deve basarsi su una cultura aziendale aperta, che promuova e favorisca l’interazione all’interno dell’impresa e tra l’impresa e il mondo esterno e sia inclusivo e non discriminante. Inoltre, le imprese devono offrire un lavoro sicuro, dove per sicuro intendiamo non solo una necessaria attenzione alla salute dei lavoratori, ma anche alla solidità aziendale e alla realizzazione di luoghi che permettano di esprimersi e operare senza pressioni e timori».

Come vede il ruolo dell’innovazione nel promuovere un “bel lavoro”? Come possono le imprese incoraggiare e valorizzare l’innovazione al proprio interno e tra i propri dipendenti?
«Per rimanere competitive le aziende devono cambiare passo e dare priorità a innovazione e discontinuità dell’offerta. Sappiamo bene, anche dai rapporti Istat sullo stato delle imprese, che la carenza di innovazione è uno degli storici motivi di debolezza della nostra economia. Tuttavia, innovazione non è una parola magica ma un’intenzione precisa, che va perseguita con consapevolezza e competenza. In Cefriel, centro di innovazione digitale che dirigo da oltre venti anni, ci piace pensare che di innovazione non si deve solo parlare, ma si deve “far accadere”. Innovare è come preparare una maratona: ci vuole tempo, sforzo e soprattutto resistenza, perché il percorso da compiere è lungo e complesso. Ma l’innovazione aiuta le imprese a costruire ambienti che presentano molte delle dieci caratteristiche richieste da un bel lavoro».

Nel suo decalogo per il “bel lavoro,” menziona la necessità di politiche salariali che superino la situazione attuale. Potrebbe illustrarci la sua proposta volta a bilanciare il divario tra lavoratori più giovani e lavoratori esperti?
«Uno snodo critico che menziono spesso, rispetto ai giovani, è quello della stabilità. Devo confessare che faccio fatica a capire le imprese che impostano tutta la loro politica delle assunzioni su contratti precari. Avere posti di lavoro stabili rende più sereni i lavoratori e permette di costruire conoscenze e know-how che si consolidano nelle persone e nel tempo. Altro punto di attenzione è il rapporto tra remunerazione fissa e parte legata a incentivi su obiettivi e risultati raggiunti. Un criterio che le imprese possono usare, per esempio, è quello di puntare ad aumenti più significativi della parte fissa per i giovani e aumenti della parte variabile per le persone di maggiore responsabilità e seniority».

Parla anche della cultura dell’eccellenza e della cultura dell’ascolto come elementi chiave per stimolare l’innovazione. Potrebbe condividere alcuni suggerimenti pratici su come le imprese possono promuovere queste culture all’interno della propria organizzazione?
«I manager vivono una fase alquanto concitata: molte cose da fare, le immancabili urgenze, le non poche emergenze, un continuo rincorrersi di riunioni, decisioni da prendere, attività da avviare e completare. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un buon management, di persone in grado di ascoltare i bisogni e dare risposte che favoriscano il merito, la crescita dei talenti e quindi l’eccellenza d’impresa. In questi ultimi mesi ho provato a raccogliere esperienze, metodi e anche cose di buon senso in un nuovo libro, che sarà pubblicato a gennaio, e che mi auguro possa rappresentare un piccolo manuale pratico di buon management».

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Paolo Manfredi sarà nostro ospite il 30 novembre. Per iscriversi e partecipare all’evento è sufficiente cliccare qui

Non è semplice riassumere italiana in poco più di 100 pagine. Non è impossibile se il Paese lo si è girato in lungo e in largo in treno, a piedi o in bicicletta. Paolo Manfredi ne “L’eccellenza non basta” (Egea 2023) tratteggia uno spaccato impietoso del paese, proponendo tuttavia una soluzione su misura. Lo abbiamo intervistato in occasione della presentazione del suo libro a MoRe Impresa Festival.

Paolo Manfredi, ne “L’eccellenza non basta” (Egea 2023), tratteggi un panorama desolante per il paese. Qual è – dal tuo punto di vista – la situazione?
«L’Italia oggi è un vaso di coccio nella competizione globale “furiosa” del post pandemia, caratterizzata da fenomeni economici, sociali, tecnologici e geopolitici sempre più rapidi e radicali. La debolezza del Paese è acuita da tre elementi fondamentali, che sono diventati ultimamente più evidenti e gravi: una crisi demografica che rende il Paese più piccolo in termini di popolazione e sempre più anziano (gli italiani vivono come tutto l’Occidente più a lungo, ma fanno molti meno figli); degli squilibri territoriali sempre più evidenti e che non si limitano al divario Nord Sud (che pure è crescente), ma investono la relazione tra centri urbani (che crescono) e aree della Provincia (che deperiscono o diventano pure appendici delle città); una perdita, legata ovviamente anche alla demografia, di quell’energia che faceva sì che molte persone forti solo del loro “mestiere” provassero a fare impresa e a innovare, mentre oggi prevalgono conservazione e immobilismo».

Dunque, per compensare questa situazione non bastano più le cosiddette “eccellenze” del made in Italy?
«A lungo, questi problemi, la cui genesi non è stata ovviamente improvvisa, sono stati coperti dal riferimento alle “eccellenze”: un Paese che aveva dato vita alla Ferrari, al prosciutto di Parma e alla Cappella Sistina non poteva essere così mal messo…. In realtà le eccellenze sono nate da territori e comunità vive e sono sempre state strettamente connesse a luoghi, persone e culture. Oggi, la crisi di quei luoghi fa si che le eccellenze siano sempre più scollegate dal loro retroterra e, peggio, fa si che manchino i vivai per coltivarne di nuove. Questo porta chi è davvero eccellente a staccarsi dal resto, con gravi conseguenze per il territorio ma spesso anche per le eccellenze stesse, mentre bisogna recuperare il concetto, molto italiano, dell’eccellenza come sintesi di comunità, culture e territori “sani” e integrati».

Potresti spiegare il concetto di “economia paziente” e come potrebbe contribuire a migliorare la situazione economica e sociale in Italia?
«L’economia paziente è l’antidoto sano all’economia “furiosa” che stiamo affrontando dal dopo pandemia, fatta di standardizzazione, fenomeni violenti e competizione sfrenata tra grandi attori. Sono elementi di un contesto in cui il nostro Paese fatica tremendamente ad affermarsi e, cosa peggiore, nel quale quello che non partecipa alla competizione, è sprecato. L’economia paziente nasce dall’idea che le imprese artigiane, le comunità locali, il terzo settore, i lavoratori più maturi, ma anche i giovani oggi espulsi dal mercato del lavoro possano e debbano organizzarsi per tornare a contare, come brodo di coltura delle eccellenze del futuro, ma anche semplicemente per ristabilire quelle condizioni di qualità della vita che ci hanno sempre contraddistinto. Come? Innanzitutto puntando sulle competenze (che permettono di affrontare un futuro incerto) e su un’idea di lavoro liberata da tutte le sovrastrutture e gli orpelli di status, che ad esempio hanno reso il lavoro manuale poco appetibile ai giovani) e riconnessa ai concetti chiave di “mestiere” e di “senso”».

Ribadisci l’importanza dell’innovazione “Middle tech“. Quali sono le sfide specifiche che l’Italia deve affrontare per sfruttare appieno questa forma di innovazione?
«Il nostro fondamentale tessuto di MPMI diffuse è stato storicamente in grado di produrre innovazione utilizzando in modo creativo tecnologia esistente, secondo la fondamentale distinzione di Dan Breznitz, autore di “Innovation in real places” tra “innovazione” e “invenzione”. Innovazione significa creare valore attraverso tecnologie e soluzioni esistenti, adattate per risolvere brillantemente problemi o cogliere opportunità: è quello che siamo – come sistema produttivo -sempre stati fra i migliori del mondo a fare. Dobbiamo tornare lì, a considerare che, accanto alla ricerca e all’invenzione, l’Italia ha sempre prodotto tantissimo valore attraverso l’innovazione “middle tech”, ossia la diffusione delle tecnologie fra le imprese di ogni dimensione perché utilizzassero competenze e creatività per ricavarne valore, è il nostro genius loci e va rispettato e incoraggiato senza sciocchi complessi di inferiorità, peraltro auto imposti».

 Torniamo a quelle che definisci la “bomba demografica” e la “desertificazione dei territori della provincia”. Quali politiche o iniziative potrebbero affrontare questi problemi in modo efficace?
«La cura principale è il lavoro: gli studi evidenziano come coppie in cui entrambi lavorano hanno anche maggiore propensione a fare figli. Non solo, anche la redistribuzione territoriale, necessaria, non è pensabile senza che si affronti il tema del lavoro di chi si vorrebbe tornasse a popolare le aree interne. L’artigianato, l’agricoltura e la manutenzione del territorio, necessaria in epoca di cambiamenti climatici violenti, possono essere una base per creare lavoro e dunque affrontare questi temi, che non si risolvono dalla sera alla mattina, ma bisogna cominciare».

E per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, quali rischi e potenzialità vedi per il nostro tessuto imprenditoriale?
«Il tema è spaventosamente complesso e aperto e abbiamo iniziato ad affrontarlo come Fondazione Germozzi, per comprendere come poter sostenere le imprese in questo passaggio tecnologico assai delicato, senza cedere a catastrofismi inutili: le macchine non prenderanno il controllo della nostra vita, almeno per molto tempo. In linea generale, possiamo dire che ci sono tre dimensioni da tenere presente. Per la singola impresa artigiana, oggi non ha senso in linea generale ragionare di strategie sull’intelligenza artificiale, ma è necessario considerare la dimensione fondamentale della sfida dell’IA, ossia l’organizzazione della conoscenza, che troppo spesso nelle nostre imprese è tacita e non codificata. Bisogna raccogliere la conoscenza di cui si è portatori perché è quella la moneta di scambio più importante per l’AI e in futuro potrà servire. Per i distretti produttivi, già oggi è il momento di porsi il tema di come mettere a fattor comune e gestire proprio questa conoscenza in capo alle imprese, per rafforzare il sistema. Per le associazioni di rappresentanza, oltre a guidare imprese e distretti in questo passaggio, si pone invece la sfida che già investe le organizzazioni di servizi avanzati: come utilizzare la tecnologia per offrire servizi sempre più puntuali e proattivi alle imprese. C’è molto da fare, da subito».

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Federico Butera sarà nostro ospite il 30 novembre. Per iscriversi e partecipare all’evento è sufficiente cliccare qui

Da dove cominciare per disegnare una nuova idea di Paese? Lo abbiamo chiesto a Federico Butera che, nel suo ultimo libro “Disegnare l’Italia. Progetti e politiche per organizzazioni e lavori di qualità” (Egea 2023), sostiene una tesi interessante: per cambiare passo dobbiamo cambiare modello organizzativo, partendo proprio da alcuni esempi virtuosi tratti dal mondo dell’imprenditoria e della PA. La nostra intervista all’autore.

Professor Butera, in “Disegnare l’Italia” (Egea 2023) lei afferma che il cambiamento organizzativo di imprese e PA può avere la forza di cambiare il Paese. Da dove cominciare?
«Con dati ed esempi tratti dall’ultimo mezzo secolo che ha visto il progressivo ma non definitivo declino del taylor-fordismo, nel libro emerge che nelle migliori organizzazioni private e pubbliche (chiamiamole organizzazioni leader, organizzazioni champion) si è sviluppato un amplissimo repertorio di forme nuove di organizzazione e di lavoro in grado di creare valore e di assicurare prosperità alle organizzazioni e alle comunità e un’alta qualità della vita. Organizzazioni animate da lavoratori e manager qualificati e motivati. Esse però non si sono diffuse quanto e come potevano in modo da rispondere adeguatamente ai crescenti bisogni di produttività del sistema Paese e di generazione di lavori di qualità. E inoltre, esse non hanno dato luogo a un nuovo sistema di regolazione dell’economia e della società con adeguate istituzioni, strutture intermedie, soggetti collettivi. E soprattutto, non hanno creato condizioni diffuse di crescita umana e professionale».

Eppure sono casi virtuosi da cui trarre esempio…
«Sì. È necessario – e possibile – progettare organizzazioni e lavori di nuova concezione, generare nuovi meccanismi di regolazione sociale in un mondo che resterà altamente turbolento. Come e dove? Attraverso cantieri partecipati nelle singole imprese e Pubbliche Amministrazioni e attraverso politiche pubbliche centrate sul lavoro e dotate di investimenti e di programmi specifici».

Cosa intende per cantieri partecipati nelle singole imprese e Pubbliche Amministrazioni?
«Sono programmi e progetti in cui le singole organizzazioni private e pubbliche adottano una “sociotecnica 5.0” in grado di promuovere insieme la loro prosperità economica; un’alta qualità della vita alle persone; una marcata sostenibilità ambientale e sociale. E con questo assicurare la necessaria transizione green e digital. La sociotecnica 5.0 consiste nella adozione integrata delle tecnologie digitali abilitanti e di una “Intelligenza artificiale giusta”; nello sviluppo di  ecosistemi e di reti organizzative governate; nel potenziamento delle organizzazioni reali animate da team eccellenti; nel favorire la diffusione di ruoli aperti e professioni a larga banda; nella formazione continua per la tendenziale professionalizzazione di tutti».

E per quanto riguarda le politiche pubbliche di cui accennava sopra?
«I programmi di politiche pubbliche sono quelli che incentivano e supportano questi cantieri. Lo avevano fatto Roosevelt con il New Deal in USA, De Gasperi con la ricostruzione postbellica in Italia, Schimdt con la Mitbestimung in Germania, Clinton e Gore con il programma Reinventing Government in USA. Lo ha fatto negli scorsi anni la Regione Emilia Romagna con il Patto per il lavoro e per il clima».

C’è qualcosa di simile nel panorama attuale?
«Il PNRR. Il Piano di ripresa e resilienza tocca tutti i temi della rigenerazione delle organizzazioni pubbliche e private a cui abbiamo fatto riferimento, attraverso gli investimenti e le riforme concordate con l’UE. Per gestire tale volume e complessità di investimenti e per realizzare effettivamente le riforme, oltre a grande rigore e competenza amministrativa da parte delle istituzioni pubbliche, occorre suscitare coesione fra pubblico e privato e una forte spinta generalizzata all’innovazione: ce lo ha chiesto l’Unione Europea nella nota di accettazione del piano italiano del 22 giugno 2021. Su questa linea si muoveva il D.L. 77/2021, Governance del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e semplificazioni. Il PNRR ha messo insieme progetti grandi e piccoli in gran parte già predisposti dai Ministeri, dalle Regioni, dai Comuni. Questo inevitabilmente li ha resi non integrati invece che parte di processi e visioni organiche. Gli effetti economico-sociali degli investimenti non deriveranno automaticamente dall’erogazione dei fondi disponibili. Occorre superare il bias economicistico per cui le risorse generano di per sé il cambiamento. Occorre che pubblico e privato insieme affrontino l’«ultimo miglio» dei progetti: percorsi di attuazione andranno collocati in uno schema unitario entro cui primeggiano i due problemi chiave della «questione organizzativa» dell’Italia delle organizzazioni diseguali: la rigenerazione del sistema produttivo e la riorganizzazioni dell’apparato pubblico».

E quale giudizio dà dell’apporto del PNRR alla transizione digitale ed ecologica del Paese?
«Il modello di gestione del PNRR è il fattore chiave. Esso prevede due livelli. Il primo, centrale a livello nazionale, ha il compito di elaborare le strategie da attuare nei progetti d’investimento previsti dalle sei missioni e dalle sedici componenti in cui esse si articolano, secondo le direttive fissate dall’Europa con Next Generation EU. A livello centrale vanno monitorati gli impegni con l’Europa e i conti pubblici dello Stato. Il secondo livello è invece quello delle Amministrazioni responsabili dei singoli investimenti. Regioni, città metropolitane ed enti locali dovranno inviare i rendiconti alla struttura di coordinamento centrale. Malgrado le raccomandazioni dell’UE, il Governo, preoccupato della complessità amministrativa e dei ritardi nella esecuzioni dei progetti, ha proceduto ad un accentramento a livello nazionale, provocando reazioni preoccupate e proteste degli Enti Locali».

Arriviamo al nostro ambito. Quale ruolo devono avere le relazioni industriali e i corpi intermedi nel favorire la riorganizzazione del Paese?
«La proposta del libro è che il modello di gestione economico finanziaria policentrica del PNNR richiesto dalla UE non solo venga rispettato, ma venga anche integrato e vitalizzato da Patti territoriali per il lavoro e per il clima, a livello regionale e metropolitano consistenti nell’assunzione di proposte e impegni di soggetti pubblici e privati che operano nell’interesse proprio e del bene comune con un focus sulla creazione di lavoro e competenze di qualità. Ci sono esperienze italiane di successo che esemplificano questa proposta, fra cui il Patto per il lavoro dell’Emilia-Romagna che ha consentito di dimezzare la disoccupazione, di aumentare costantemente il valore aggiunto, di promuovere innovazione tecnologica. Lo abbiamo studiato a fondo e abbiamo estratto un metodo in sei punti, che riteniamo generalizzabile a tutte le Regioni, città metropolitane, territori».

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Tutto pronto per il festival delle imprese che quest’anno giunge alla sua quarta edizione.

Un appuntamento che – come di consueto – vedrà la collaborazione di alcune importanti istituzioni locali e la partecipazione di illustri personalità del dibattito pubblico. Tra questi due assoluti protagonisti del mondo sportivo e imprenditoriale locale, ma soprattutto le imprese associate a Lapam Confartigianato che, anche quest’anno, apriranno le porte agli studenti delle scuole superiori per il progetto “Manifatture Aperte”.

L’inaugurazione è fissata per mercoledì 29 novembre per una serata all’insegna della passione per lo sport e per il lavoro. Sul palco: Carlo Rivetti, presidente di Stone Island e del Modena Calcio e Giulia Gabana, presidentessa del Modena Volley.

La rassegna degli eventi prosegue poi giovedì 30 novembre, per un pomeriggio dedicato all’innovazione e alle imprese. Dalle 15.00, insieme a Federico Butera, presidente della Fondazione IRSO e tra i maggiori esperti in Italia di organizzazioni complesse, presenteremo il suo ultimo saggio “Disegnare l’Italia: progetti e politiche per organizzazioni di qualità” (Egea 2023).

A seguire, con Paolo Manfredi, responsabile del progetto speciale PNRR di Confartigianato Imprese, e co-founder e responsabile di impatto di Upskill 4.0 Società Benefit, parleremo di come il concetto di “eccellenza” – trattato nel suo ultimo saggio, “L’eccellenza non basta: l’economia paziente che serve all’impresa” (Egea 2023) – non sia più sufficiente a sostenere la trama del tessuto produttivo italiano.

Infine, a partire dalle ore 18:00, con Alfonso Fuggetta, direttore del Cefriel e professore ordinario di informatica al Politecnico di Milano, parleremo di innovazione, imprese e lavoro, presentando la sua ultima fatica editoriale: “Un bel lavoro: ridare significato e valore a ciò che facciamo” (Egea 2023).

Per iscriversi agli eventi è sufficiente cliccare qui

La seconda edizione di Manifatture Aperte

Durante la tre giorni di eventi si svolgerà poi la seconda edizione di “Manifatture Aperte”, il progetto nato dalla collaborazione tra associazione, imprese e scuole locali, per far conoscere agli studenti del territorio lo straordinario patrimonio di conoscenze e capacità offerte dalle aziende del territorio. Il 1° dicembre, infine, si terrà un grande evento di networking dedicato alle imprese e agli istituti superiori aderenti al progetto.

Anche quest’anno il festival può vantare il sostegno dalla Camera di Commercio di Modena e il patrocinio di Regione Emilia Romagna e del Comune di Modena.