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Le eccellenze non bastano più

Le eccellenze non bastano più

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Paolo Manfredi sarà nostro ospite il 30 novembre. Per iscriversi e partecipare all’evento è sufficiente cliccare qui

Non è semplice riassumere italiana in poco più di 100 pagine. Non è impossibile se il Paese lo si è girato in lungo e in largo in treno, a piedi o in bicicletta. Paolo Manfredi ne “L’eccellenza non basta” (Egea 2023) tratteggia uno spaccato impietoso del paese, proponendo tuttavia una soluzione su misura. Lo abbiamo intervistato in occasione della presentazione del suo libro a MoRe Impresa Festival.

Paolo Manfredi, ne “L’eccellenza non basta” (Egea 2023), tratteggi un panorama desolante per il paese. Qual è – dal tuo punto di vista – la situazione?
«L’Italia oggi è un vaso di coccio nella competizione globale “furiosa” del post pandemia, caratterizzata da fenomeni economici, sociali, tecnologici e geopolitici sempre più rapidi e radicali. La debolezza del Paese è acuita da tre elementi fondamentali, che sono diventati ultimamente più evidenti e gravi: una crisi demografica che rende il Paese più piccolo in termini di popolazione e sempre più anziano (gli italiani vivono come tutto l’Occidente più a lungo, ma fanno molti meno figli); degli squilibri territoriali sempre più evidenti e che non si limitano al divario Nord Sud (che pure è crescente), ma investono la relazione tra centri urbani (che crescono) e aree della Provincia (che deperiscono o diventano pure appendici delle città); una perdita, legata ovviamente anche alla demografia, di quell’energia che faceva sì che molte persone forti solo del loro “mestiere” provassero a fare impresa e a innovare, mentre oggi prevalgono conservazione e immobilismo».

Dunque, per compensare questa situazione non bastano più le cosiddette “eccellenze” del made in Italy?
«A lungo, questi problemi, la cui genesi non è stata ovviamente improvvisa, sono stati coperti dal riferimento alle “eccellenze”: un Paese che aveva dato vita alla Ferrari, al prosciutto di Parma e alla Cappella Sistina non poteva essere così mal messo…. In realtà le eccellenze sono nate da territori e comunità vive e sono sempre state strettamente connesse a luoghi, persone e culture. Oggi, la crisi di quei luoghi fa si che le eccellenze siano sempre più scollegate dal loro retroterra e, peggio, fa si che manchino i vivai per coltivarne di nuove. Questo porta chi è davvero eccellente a staccarsi dal resto, con gravi conseguenze per il territorio ma spesso anche per le eccellenze stesse, mentre bisogna recuperare il concetto, molto italiano, dell’eccellenza come sintesi di comunità, culture e territori “sani” e integrati».

Potresti spiegare il concetto di “economia paziente” e come potrebbe contribuire a migliorare la situazione economica e sociale in Italia?
«L’economia paziente è l’antidoto sano all’economia “furiosa” che stiamo affrontando dal dopo pandemia, fatta di standardizzazione, fenomeni violenti e competizione sfrenata tra grandi attori. Sono elementi di un contesto in cui il nostro Paese fatica tremendamente ad affermarsi e, cosa peggiore, nel quale quello che non partecipa alla competizione, è sprecato. L’economia paziente nasce dall’idea che le imprese artigiane, le comunità locali, il terzo settore, i lavoratori più maturi, ma anche i giovani oggi espulsi dal mercato del lavoro possano e debbano organizzarsi per tornare a contare, come brodo di coltura delle eccellenze del futuro, ma anche semplicemente per ristabilire quelle condizioni di qualità della vita che ci hanno sempre contraddistinto. Come? Innanzitutto puntando sulle competenze (che permettono di affrontare un futuro incerto) e su un’idea di lavoro liberata da tutte le sovrastrutture e gli orpelli di status, che ad esempio hanno reso il lavoro manuale poco appetibile ai giovani) e riconnessa ai concetti chiave di “mestiere” e di “senso”».

Ribadisci l’importanza dell’innovazione “Middle tech“. Quali sono le sfide specifiche che l’Italia deve affrontare per sfruttare appieno questa forma di innovazione?
«Il nostro fondamentale tessuto di MPMI diffuse è stato storicamente in grado di produrre innovazione utilizzando in modo creativo tecnologia esistente, secondo la fondamentale distinzione di Dan Breznitz, autore di “Innovation in real places” tra “innovazione” e “invenzione”. Innovazione significa creare valore attraverso tecnologie e soluzioni esistenti, adattate per risolvere brillantemente problemi o cogliere opportunità: è quello che siamo – come sistema produttivo -sempre stati fra i migliori del mondo a fare. Dobbiamo tornare lì, a considerare che, accanto alla ricerca e all’invenzione, l’Italia ha sempre prodotto tantissimo valore attraverso l’innovazione “middle tech”, ossia la diffusione delle tecnologie fra le imprese di ogni dimensione perché utilizzassero competenze e creatività per ricavarne valore, è il nostro genius loci e va rispettato e incoraggiato senza sciocchi complessi di inferiorità, peraltro auto imposti».

 Torniamo a quelle che definisci la “bomba demografica” e la “desertificazione dei territori della provincia”. Quali politiche o iniziative potrebbero affrontare questi problemi in modo efficace?
«La cura principale è il lavoro: gli studi evidenziano come coppie in cui entrambi lavorano hanno anche maggiore propensione a fare figli. Non solo, anche la redistribuzione territoriale, necessaria, non è pensabile senza che si affronti il tema del lavoro di chi si vorrebbe tornasse a popolare le aree interne. L’artigianato, l’agricoltura e la manutenzione del territorio, necessaria in epoca di cambiamenti climatici violenti, possono essere una base per creare lavoro e dunque affrontare questi temi, che non si risolvono dalla sera alla mattina, ma bisogna cominciare».

E per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, quali rischi e potenzialità vedi per il nostro tessuto imprenditoriale?
«Il tema è spaventosamente complesso e aperto e abbiamo iniziato ad affrontarlo come Fondazione Germozzi, per comprendere come poter sostenere le imprese in questo passaggio tecnologico assai delicato, senza cedere a catastrofismi inutili: le macchine non prenderanno il controllo della nostra vita, almeno per molto tempo. In linea generale, possiamo dire che ci sono tre dimensioni da tenere presente. Per la singola impresa artigiana, oggi non ha senso in linea generale ragionare di strategie sull’intelligenza artificiale, ma è necessario considerare la dimensione fondamentale della sfida dell’IA, ossia l’organizzazione della conoscenza, che troppo spesso nelle nostre imprese è tacita e non codificata. Bisogna raccogliere la conoscenza di cui si è portatori perché è quella la moneta di scambio più importante per l’AI e in futuro potrà servire. Per i distretti produttivi, già oggi è il momento di porsi il tema di come mettere a fattor comune e gestire proprio questa conoscenza in capo alle imprese, per rafforzare il sistema. Per le associazioni di rappresentanza, oltre a guidare imprese e distretti in questo passaggio, si pone invece la sfida che già investe le organizzazioni di servizi avanzati: come utilizzare la tecnologia per offrire servizi sempre più puntuali e proattivi alle imprese. C’è molto da fare, da subito».