Rassegna stampa

Gli articoli usciti sui giornali e le news su MoRe Impresa Festival


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Innovazione sostenibile o uscita dal mercato. Lo scrittore Giuseppe Sabella pone le aziende al bivio: evolvere in chiave “green” o rischiare di sparire.
L’ autore di “Ripartenza Verde” darà un proprio intervento nella giornata di domani alla Camera di Commercio per l’ incontro “Sostenibilità ambientale e lavoro”.

L’ evento partirà alle 11 e rientra nel MoRe Impresa Festival 2021. «Il sistema delle imprese italiane non ha ancora chiaro un concetto – analizza Sabella – ovvero che anche nelle piccole botteghe i consumatori chiederanno i prodotti riciclabili. Se saranno delusi, non torneranno più. In Italia il 95 per cento delle imprese ha meno di dieci addetti. Avviare un percorso di sviluppo sostenibile significa innovare in senso sia digitale sia energetico. Se non lo fa, un’ impresa rischia inevitabilmente di uscire dal mercato».
La ricetta è presto scritta.

«I ritardi non sono più sostenibili – prosegue l’ autore – Tutte le imprese dovrebbero andare dietro l’ innovazione digitale ed energetica, che è allo stesso tempo ecologica».

Sabella vive in Lombardia, ma conosce bene la realtà emiliana. L’ ex patron del Sassuolo Giorgio Squinzi ha scritto l’ introduzione del suo testo di esordio (“Da Torino a Roma”) e l’ autore apprezza l’ iniziativa portata avanti da Lapam.

«Servono più eventi del genere – ribadisce Sabella – Non sono stupito sia organizzato in Emilia Romagna, il territorio più capace e sensibile in Italia».

Sensibilità e ambiente forniscono un assist perfetto per discutere di nuove generazioni.

«I giovani sono da sempre i portatori d’ innovazione e idealità – spiega l’ autore – perché guardano al mondo e alla vita in un modo più ideale. L’ ambiente per loro è estremamente importante. Gli adulti si rendono ora conto che è un fattore ineludibile, i giovani lo sanno già».

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In vista dell’evento giovedì 14 ottobre a MoRe Impresa Festival, proponiamo l’articolo apparso su Gazzetta di Modena mercoledì 13 ottobre

«I lavori che verranno dovranno essere integrati sotto il profilo della sostenibilità: oggi più nessuno chiede a un colloquio se il candidato sa usare il computer, tra 20 anni e forse anche prima non si chiederà più se sarà formato sulla sostenibilità. E già oggi è determinante esserlo per tante professioni: penso a chi si occupa di acquisti, a chi fa comunicazione, a chi lavora sulle operation».

Stella Gubelli, ospite al MoRe Impresa Festival di Lapam domani alle 11.30 insieme a Giuseppe Sabella per parlare di sostenibilità e lavoro, non ha dubbi. La responsabile Altis (l’ Alta scuola di formazione sulla sostenibilità di Università Cattolica) prosegue:

«I lavori che sono in programma nella giornata di domani dovranno essere integrati con questa tematica, così come dovranno esserlo tutte le imprese, dalle più grandi fino alle piccole. La vera novità di questi ultimi 18 mesi è proprio questa: le piccole e medie imprese si stanno via via avvicinando alla sostenibilità e questa è la notizia migliore, perchè è risaputo che l’ Italia può vantare un tessuto molto ampio di piccole e medie imprese. Ma se è vero che le grandi, in generale, su questo tema hanno già all’ interno competenze e sanno di cosa si parla, per le piccole e medie è necessario partire dalla formazione e dalla consapevolezza. Ci sono tante pmi che si avvicinano al tema perchè spinte da clienti (penso all’ automotive, che nel vostro territorio è così importante, ma anche alla moda solo per fare un paio di esempi) ed è dunque importante far crescere la consapevolezza e fornire formazione».

è questo uno degli obiettivi del festival promosso che è stato dall’associazione Lapam:

«E poi – conclude Stella Gubelli – oltre alla formazione è decisivo passare dalla misurazione della sostenibilità per le pmi, per evitare che ci si fermi alla superficie».

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In vista dell’evento giovedì 14 ottobre a MoRe Impresa Festival, riproponiamo – con il consenso dell’autrice – l’articolo di Cristina Tajani, apparso sul Sole 24 Ore di mercoledì 4 agosto, sul futuro delle città. Un contributo importante che riguarda anche città medio piccole, come Modena e Reggio Emilia, collegate da un “corridoio” (la via Emilia ndr.) strategico, ma non per questo sufficiente a garantire il benessere delle sue aree interne.

Densità, massa critica, produttività, circolazione della conoscenza e stipendi più alti del 20% rispetto alle zone rurali sono gli ingredienti del finora indiscusso successo delle città-mondo. Un’affermazione tale da aver spinto l’Ocse a definire «The Metropolitan Century» il tempo in cui ci è dato vivere. Secondo le previsioni dell’organizzazione con base a Parigi che riunisce i principali Paesi industrializzati in cui opera un’economia di mercato, le città abitate da più di dieci milioni di persone diventeranno 41 entro il 2030; se oggi ospitano oltre il 50% della popolazione mondiale, nel 2100 arriveremo all’85%: ben nove miliardi di abitanti calcheranno allora il suolo delle metropoli.

Eppure alla luce dello shock impresso dalla pandemia è inevitabile porre in discussione queste previsioni, sottoponendole a un vaglio critico. L’interruzione brusca – e, dopo oltre un anno, dobbiamo dire anche duratura – del traffico aereo; i colpi inferti alle attività fieristiche, al sistema dell’accoglienza, all’offerta culturale, al Pil e al reddito pro capite; il calo dell’occupazione, l’effetto del lavoro da remoto sui
city user, che fino al 2020 erano pendolari e oggi, almeno per una certa quota, esercitano il proprio mestiere fuori dal confine amministrativo: tutto ciò ha colpito le città sull’intera superficie del globo.
Ha senso domandarsi se, realizzandosi il meno desiderabile tra gli scenari, cioè una lunga permanenza del Covid-19 nelle nostre vite, non possa ripetersi ciò che accadde fra IV e VIII secolo: lo spopolamento, e in alcuni casi la scomparsa, delle città europee? Fronteggeremo una nuova epoca di «città retratte»?

Alla vigilia di importanti elezioni amministrative (Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli e, oltreoceano, New York sceglierà il suo prossimo sindaco a novembre) è corretto esercitare il dubbio. Dopo aver scandagliato la vita delle metropoli scosse dalla crisi potremmo scoprire che le città vincono ancora. A condizione che si dispieghino le opportune strategie
di adattamento.

La scala è il primo grande discrimine: le osservazioni macro-geografiche e quelle micro-geografiche possono rivelare dinamiche diverse. Nella nostra ottica, la seconda prospettiva è la più interessante, perché sollecita chi voglia progettare politiche territoriali adeguate alla realtà e al ruolo atteso per le città che verranno.

Nell’articolo “Cities in a Post-Covid World”, Richard Florida, Andrés Rodríguez-Pose e Michael Storper ipotizzano che, a scala macro-geografica, la tendenza winner-takes-all che ha caratterizzato le relazioni tra metropoli e resto del mondo fino alla pandemia non subirà rilevanti cambiamenti.

La maggior parte delle città medie e di quelle rurali perderanno probabilmente di più. Ecco affacciarsi il tema della «vendetta dei luoghi che non contano», ovvero della irrisolta tensione tra metropoli e territori non metropolitani, rappresentata emblematicamente dagli accadimenti di questi anni: divaricazione dei redditi, inurbamento degli individui ad alta qualificazione, rivolta di tutto ciò che città non è, simboleggiata dai gilet gialli che si scaricano su Parigi. Fino a riflettersi nella costante difformità nei comportamenti elettorali «tra città e contado».


Proveniente più dalla sfera del politico che da quella dell’economico, il populismo ha preso piede in molti di questi centri spossessati di ruolo. Più ci si allontana dai luoghi dove i flussi si addensano, dove i media si concentrano, le infrastrutture digitali abbondano e i capitali si accumulano – insomma, più ci si allontana dalle grandi città – più sfuggevole diventa per le persone percepire il proprio ruolo e la propria influenza sui grandi processi collettivi.


Questa considerazione rende duplice la sfida che attende i sindaci di tutto il mondo: da un lato quali “strategie di adattamento” mettere in campo all’interno dei confini amministrativi per limitare l’impatto economico della pandemia e favorire la coesione sociale; dall’altro come riconciliare le città con ciò che città non è, ovvero con i territori produttivi da cui arrivano le merci, i beni alimentari, i semilavorati, persino i cervelli. Nella consapevolezza che le disuguaglianze con i territori circostanti non giovano alle città, così come le polarizzazioni interne tra lavoro e rendita.

Questo articolo è apparso sul Sole 24 Ore il 4 agosto scorso. 

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Con la rubrica di Striscia la Notizia “Paesi e Paesaggi” Davide Rampello ha portato nelle case degli italiani il meglio del saper fare italiano. Con “L’Italia fatta a mano. Beni culturali viventi”, il suo ultimo saggio pubblicato da Skira, ha ricostruito in modo originale la storia di questo inestimabile patrimonio. Grazie ai padiglioni Expo da lui curati (Shangai, Milano, Dubai) ha coinvolto migliaia di persone in un racconto sensoriale dell’Italia di grande impatto. Un lavoro encomiabile che lo rende uno dei più stimati e riconoscibili ambasciatori del made in Italy nel mondo. Lo abbiamo intervistato in vista della serata di apertura di MoRe Impresa Festival, mercoledì 13 ottobre. 

Professor Rampello, nei suoi interventi e nel suo ultimo libro, lei parla di beni culturali viventi. Cosa intende?
«Mi riferisco ad uno dei grandi patrimoni del nostro Paese. Noi abbiamo i beni culturali e i beni culturali viventi. Abbiamo i beni paesaggistici, i beni immateriali e i beni viventi. Quelle donne e quegli uomini che hanno accumulato, rielaborato, re-interpretato saperi e “saper fare”, in un modo ricco di intelligenza e sensibilità. Hanno perciò rispettato fino in fondo il concetto di tradizione che la cui etimologia proviene dal verbo latino “tradere” cioè “portare di qua”. Queste donne e uomini straordinari hanno portato nel nostro presente i saperi, i gesti che i loro padri, i loro nonni, hanno consegnato loro. Ma con la capacità di sapere valorizzare, attualizzare questi antichi saperi. È così che la ricetta della nonna si rinnova perché gli ingredienti sono diversi, o perché i gesti, le mani della nipote si muovono in modo diverso da quelli della nonna o perché è diverso il forno e così via…». 

C’è poi anche dimensione etica attorno al lavoro artigianale e manuale. Fare le cose aiuta a pensare e, come suggerito da Richard Sennett, ad essere cittadini, uomini e donne migliori.
«È questo che è fondamentale, la dimensione etica che li guida. Perché quando mi trovo a parlare con un contadino, con un artigiano, con un agricoltore, io non mi permetto mai di parlare di sostenibilità o economia circolare. Sono loro che la insegnano a me. Dico queste due parole perché sono sulla bocca di tutti, ma la vita contadina, la vita artigiana, è sempre stata all’insegna del non spreco. Della grande attenzione di ciò che circonda, al riciclo costante e favorire i cicli naturali. La sapienza che ha il pescatore quando pesca in modo da non depauperare il giacimento, perché ha chiaro il patrimonio cha ha a disposizione, sapendo che esso va mantenuto per sé, per i figli e per i nipoti che verranno». 

Eppure le realtà di cui lei parla nella rubrica di Striscia la notizia “Paesi e Paesaggi”, sono trascurate dai media e dalla politica nostrana… pensiamo invece a ciò che accade in Francia o Giappone, o nel mondo anglosassone, giusto per fare alcuni esempi virtuosi di valorizzazione dei saperi. Perché?
«Questo fa parte della poca intelligenza e della poca sensibilità di certa politica e informazione. Ma ora, dopo i grandi stilisti, le archistar e gli chef, è venuto il momento dei grandi artigiani. Bisogna aprire loro la scena. Innanzitutto perché sono il vero patrimonio del made in Italy, non a caso i grandi marchi di moda sempre di più hanno bisogno di personalizzare e vanno da chi ha le mani e la sensibilità per accontentarli. E nel libro “L’Italia fatta a mano” (Skira 2019) racconto tutto questo, come il vero DNA italiano». 

Eppure nella rivalutazione del lavoro artigiano molti vedono una battaglia di retroguardia. Una difesa della “tradizione” purchessia…
«La gente pensa che la tradizione sia fermare, cristallizzare il tempo. Questa è una idiozia. Come dicevo la parola tradizione ha la stessa radice di “traduzione” o anche di “tradimento”, vuol dire portare di là, trasportare al di là. Infatti tradurre qualcosa vuol dire portare da una lingua ad un’altra concetti, pensieri, racconti… La tradizione è innovazione. Da un punto di vista del mercato non c’è mai stato tanto denaro nel mondo. Non c’è mai stata tanta gente pronta a valorizzare esperienze come queste. Sta quindi a noi valorizzare questo patrimonio. Di fatti io non dico piccolo è bello, ma piccolo è prezioso. Se un artigiano fa solo 1.000 forme di formaggio, ma queste sono straordinarie, queste forme invece di costare 10 costano 100 e c’è chi è disposto a comprarle.
Il tema della valorizzazione e il tema di creare reti preferenziali per mercati alti è fondamentale. Tra l’altro noi abbiamo un’industria agroalimentare e un industria della moda e del design così straordinaria, proprio perché abbiamo questi benchmark. Se non avessimo il confronto con l’altissima qualità non avremmo tutti questi straordinari ambasciatori del made in Italy. L’industria agroalimentare ha poi ancora il valore più importante in assoluto: il sapore. Senza sapore, non c’è sapere. Non c’è desiderio». 

In una recente intervista Marco Montemagno le ha rivolto una domanda che ho trovato molto interessante e che vorrei riproporle per i nostri lettori. Quanto è scalabile a suo avviso la qualità?
«Questo dipende dall’impegno dell’imprenditore. Ma se pensiamo all’industria della moda o del design o anche a certa industria dell’automotive, penso a Pagani, o alla scelta di costruire la supercar elettrica a Reggio Emilia, troviamo dei protagonisti straordinari in questo senso». 

Senta, ma oggi è davvero possibile invogliare i più giovani (il vero target del nostro festival) a intraprendere mestieri legati alla terra e al lavoro manuale?
«Abbiamo distrutto le scuole professionali in nome di non si sa bene cosa. Ma se è vero che viviamo in una cultura complessa è anche evidente che bisogna formarsi di più e lavorare meglio. L’uomo se non ama ciò che fa si sfalda. Oggi c’è un mercato enorme per attualizzare le scuole professionali e dei mestieri. Perciò il concetto di impresa è quello di reinvestire, di costruire, di progettare e non di fare per “bruciare” al momento. Penso che se adeguatamente spiegati questi concetti siano ancora assolutamente attuali e invoglianti». 

Grazie al suo lavoro, o a quello di alcune importanti fondazioni, abbiamo assistito negli ultimi anni al fiorire di iniziative e manifestazioni dedicate al “sapere fare”. A suo avviso, le associazioni datoriali che ruolo potrebbero giocare a supporto di queste iniziative?
«Non sono all’altezza di quello che sta succedendo. Sono troppo burocratizzate e soprattutto non hanno la sensibilità per capire. Bisogna svegliare e darsi da fare, continuare instancabilmente, però qualcosa si muove. Girando l’Italia ho visto tanti giovani e tante persone che stanno tornando alla terra. Accanto a questo grande tema della digitalizzazione, dovrebbe esserci attenzione verso la valorizzazione di questi straordinari “capitali umani”.

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Tutto pronto per la seconda edizione del festival, organizzato da Lapam Confartigianato Imprese con il patrocinio di Regione Emilia Romagna, Comune di Modena e Università di Modena e Reggio Emilia e con il contributo della Camera di Commercio di Modena e che offrirà ad imprese, cittadini e studenti delle scuole superiori del territorio uno spazio di riflessione sui grandi temi del lavoro e del fare impresa. 

Appuntamento da mercoledì 13 ottobre presso la sala Leonelli della Camera di Commercio di Modena (in via Ganaceto 134) in presenza, nel rispetto delle normative anti-Covid, e in streaming sui nostri canali social.

Il programma

Dopo l’interruzione dovuta alla pandemia, il festival torna quindi nella città estense con un palinsesto ricco di eventi pensati per mettere a fuoco i grandi temi che ruotano intorno al mondo del lavoro e delle piccole e medie imprese italiane e per promuovere la cultura del lavoro autonomo. In particolare quelli della sostenibilità ambientale, del rapporto tra scuole e lavoro e tra città e territorio. Ma non solo. L’edizione 2021 del festival è dedicata ai più giovani. Le scuole locali sono infatti state coinvolte attivamente nell’organizzazione dell’evento, per permettere a studentesse e studenti delle scuole superiori di Modena e Reggio Emilia di assistere in presenza e in streaming a tutti gli eventi promossi in occasione del festival. 

Un modo per renderli protagonisti del dibattito pubblico che riguarda il futuro del nostro Paese e metterli in contatto diretto con opinionisti, giornalisti, intellettuali e politici a cui potranno rivolgere domande e presentare proposte. 

Gli ospiti

Tra gli ospiti dell’edizione 2021, Davide Rampello, saggista, autore televisivo, ex presidente della Triennale di Milano e curatore del padiglione Zero ad Expo 2015 e del padiglione Italia ad Expo Dubai 2020; Francesco Costa, saggista, podcaster, vicedirettore del Post; Costantino Grana professore ordinario presso il Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari” e Presidente del Consiglio dei Corsi di Studio in Ingegneria Informatica; Cristina Tajani, assessora alle Politiche del Lavoro, Attività Produttive, Commercio e Risorse Umane del Comune di Milano e autrice di “Città Prossime. Dal quartiere al mondo. Milano e le metropoli globali” e tanti altri; Gianluca Diegoli, tra i più conosciuti esperti di strategia digitale e marketing in Italia e co-fondatore di Digital Update; Michele Tiraboschi, giuslavorista e professore ordinario di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia; Ilaria Vesentini, giornalista e corrispondente del Sole 24 Ore per l’Emilia Romagna; Gian Carlo Muzzarelli, sindaco di Modena; Stella Gubelli, responsabile area Consulenza, ALTIS Università Cattolica del Sacro Cuore; Giuseppe Sabella, direttore Think Industry 4.0 e autore di “Ripartenza verde”. 

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Voglia di innovare e partecipare. È stato anche questo MoRe Hack, il primo hackathon rivolto ai giovani studenti della provincia di Modena e Reggio Emilia per offrire nuovi spunti ed idee alle imprese e al piccolo commercio.

I vincitori

A vincere, un progetto volto al rilancio economico del centro storico. La giuria, composta da imprenditori e funzionari Lapam oltre che dal Pro Rettore di Unimore, il professor Gianluca Marchi e da Marcella Gubitosa cofondatrice di Stars & Cows, ha infatti premiato tra i sei gruppi di under 35 partecipanti ‘Famar’, gruppo composto da Matteo Righi, Alessandra Caresani, Sergiu Dumbrava, Andrea Pradelli e Franco Pradelli, che ha elaborato un progetto basato su una app chiamata Rientro. L’idea è di promuovere il risparmio per gli acquisti nei negozi del centro storico con sistemi di incentivi, cashback e tramite il meccanismo del passaparola e del feedback, supportando l’impresa. Il team di Rientro, attraverso l’utilizzo dell’app, raccoglie inoltre dati statistici utili alla profilazione dei clienti e degli esercenti, fungendo da generatore di informazioni per enti pubblici, cittadini e privati. Ma, in parole povere, cosa hanno fatto i circa 40 partecipanti all’hackaton Lapam? I ragazzi, per la maggior parte studenti Unimore, hanno avuto 12 ore di tempo in due giorni durante le quali tra brainstorming e caffe, hanno sviluppato idee e creato presentazioni da esporre alla giuria. Due i temi: il rilancio del centro storico, appunto, e il networking tra imprese.

L’idea

L’hackathon è infatti un format diffuso negli Stati Uniti e che sta prendendo sempre più piede anche in Italia dove ragazzi e studenti suddivisi in gruppi si sfidano rispondendo a uno o più temi con progetti e idee. La giuria sui è basata su quattro criteri: utilità e valore del progetto; attinenza agli obiettivi proposti; creatività, sostenibilità e innovatività; chiarezza e completezza della presentazione. Il segretario Lapam, Carlo Alberto Rossi, chiosa: “Oggi gli hackathon possono essere non soltanto un driver per l’innovazione ma anche un’esperienza altamente formativa per i ragazzi, permettono infatti di allenare le soft skills, sempre più richieste nel mondo del lavoro. Queste competenze consistono nel saper comunicare in modo efficace, lavorare in team oltre che rispondere positivamente allo stress. La scommessa di realizzare un hackaton durante il MoRe Impresa Festival e dar modo ai giovani di esprimere idee e creatività, si è rivelata vincente”.
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Non sono d’accordo, con lo status quo. Non sono d’accordo, con chi rimane a guardare. Non sono d’accordo, con chi pensa di fare tutto da solo. Non sono d’accordo, con chi ha paura di mettersi in gioco. Non sono d’accordo, con chi sta seduto sul divano e non viene a More Impresa Festival a capire come fare a migliorare il nostro paese. “Eureka!” ha gridato Archimede quando è entrato nella vasca da bagno e ha scoperto che l’acqua si era alzata. Archimede aveva capito che in questo modo si può riuscire a misurare precisamente il volume di qualsiasi oggetto. Si narra che per la gioia di condividere questa scoperta si mise a correre nudo per le strade di Siracusa. Questo aneddoto ci insegna che dobbiamo essere sempre all’erta perché la scoperta può avvenire in qualsiasi momento e che la scoperta non ha valore se non è condivisa. Ora qualcuno potrebbe pensare alle ragioni per cui Archimede, che aveva fatto centinaia di bagni prima di quello in cui ha fatto quella scoperta, abbia creato quella nuova connessione proprio in quel momento. In realtà questa è una domanda a cui non avremo mai risposta, quello che sappiamo è che Eureka significa “ho trovato” perché Archimede era costantemente alla ricerca di problemi che non erano ancora stati risolti. Il Design Thinking ci insegna come fare a capire in profondità i problemi da affrontare attraverso la ricerca, l’osservazione della realtà e la comprensione profonda dei bisogni dell’uomo e trovare le soluzioni tramite prototipi che ci consentano di apprendere rapidamente ciò che funziona rispetto a quanto abbiamo realizzato.

La lingua dell’innovazione

Questo processo, che parte dallo stupore di riconoscere e accettare una questione che ad un certo punto ci viene posta davanti (che è l’etimologia della parola problema, dal greco PRO avanti e BLEMA getto, colpo), unisce molteplici prospettive per comprenderla appieno e trova una soluzione che genera valore per le persone, è considerato la lingua dell’innovazione. Se sei un imprenditore, un creativo, un innovatore o semplicemente stai cercando un modo per cambiare le cose allora il Design Thinking fa per te. Ti insegna a mettere in dubbio lo status quo, a considerare più informazioni, a formare un gruppo di lavoro integrando le diverse prospettive e a ingaggiarlo nella sfida che l’innovazione ci pone. L’Italia è un paese ricco di tradizioni, ma se la tradizione è un’innovazione che ha avuto successo, allora è un paese che è ricco di persone che innovano. Se sei un imprenditore, un creativo, un innovatore o anche tu pensi fuori dal coro, ci vediamo sabato alle 10 al More Impresa Festival! Matteo Vignoli Ricercatore in Ingegneria Gestionale presso l’Università di Bologna e l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
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Il Business Model Canvas (BMC) è uno strumento progettato circa 10 anni fa da Alexander Osterwalder e Yves Pigneur ed è uno dei tool più utilizzati nell’ambito della consulenza strategica. Il nome del BMC ne descrive efficacemente l’idea di fondo; infatti se la parola “tela” è la traduzione letterale del termine inglese “canvas” e richiama l’immagine del pittore che dipinge un quadro, il BMC è lo strumento su cui l’imprenditore raffigura la logica alla base delle attività svolte dalla propria impresa. Partendo da questa riflessione quindi, lo strumento acquisisce una funzione chiara e precisa che nell’ultimo decennio anni ha portato imprenditori, startup e consulenti ad utilizzarlo come principale ausilio alla presentazione dei rispettivi progetti d’impresa. A differenza di strumenti tradizionali utilizzati per lo stesso scopo come ad esempio il business plan, la cui preparazione richiede un lavoro di dettaglio che spesso lo rende obsoleto prima ancora di essere stato completato, il Business Model Canvas facilita la rapida condivisione di visioni diverse riguardo gli aspetti più importanti (identificati dalle 9 “stanze” che compongono lo strumento) che caratterizzano l’operare di un’azienda e consente di visualizzare tali aspetti all’interno di un unico foglio.

Una visione di insieme immediata

Le caratteristiche che hanno reso questo strumento tanto famoso e utilizzato sono da ricercarsi nella sua capacità di mettere in risalto gli aspetti più importanti che caratterizzano un’iniziativa imprenditoriale mantenendo però una visione d’insieme sul progetto che si va a raffigurare. Da un lato infatti il BMC consente di analizzare il mercato e le dinamiche che legano i prodotti servizi di un’azienda ai bisogni dei suoi clienti, dall’altro invece consente di approfondire le dinamiche aziendali legate alla realizzazione di tali prodotti e servizi. Vien da sé che l’utilizzo di questo strumento non è scontato e il fatto che la semplicità sia una delle caratteristiche più importanti che il BMC si porta dietro fa comprendere come la sua corretta applicazione sia più complicata di quanto non ci si aspetti. D’altra parte, questa tela può essere una grande risorsa per ogni azienda, a prescindere dal settore in cui essa opera, che voglia implementare nuove strategie, accedere a nuovi mercati e realizzare nuovi prodotti e servizi. Inoltre, la fase di grandi cambiamenti portati dall’Industria 4.0 fornisce una ulteriore opportunità per gli imprenditori che vogliono capire come l’introduzione delle tecnologie digitali può incidere sulle attività e sulla struttura delle loro aziende. Per queste ragioni e per tante altre che scoprirete venerdì 13 dicembre, vi invitiamo a partecipare al workshop “Disegnare il proprio business. Usare il Business model canvas per fare impresa” tenuto da Leonello Trivelli che vi guiderà tra le stanze del Business Model Canvas sulla base della sua esperienza di ricercatore, consulente e imprenditore all’interno di Declar l’agenzia di comunicazione e marketing di cui è socio fondatore.
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L’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena, la sede della maggior parte degli eventi del festival, è un luogo poco conosciuto ai più, ma ricco di fascino e dalla storia antica. Tra i suoi soci (tutti rintracciabili sul sito dell’ente) figurano nomi del calibro di Ludovico Antonio Muratori, Giosuè Carducci, Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi e più recentemente il maestro Riccardo Muti. Riprendiamo alcuni dei suoi passaggi dal sito dell’ente: “Nata dalla richiesta dei cittadini di Modena, che si presentarono agli inizi del 1600 ai conservatori del Comune per richiedere che nella città fosse restituita l’Università e istituita un’Accademia, rappresenta la continuazione dell’antica Accademia dei Dissonanti. Al primo progetto, intorno al 1680, si dice ad opera di un sacerdote della Congregazione della Beata Vergine e di S. Carlo, il teologo don Dario Sangiovanni, seguì una concentrazione organizzativa tra il 1681 e il 1683, quando si unirono al Sangiovanni, quali promotori, il marchese Bonifazio Rangoni, il conte Pirro Graziani e il francescano cartesiano Michelangiolo Fardella. Nel 1684-86 iniziò la sua attività […].

Il simbolo e il motto

Prima del 1682 l’Accademia molto probabilmente esisteva con la semplice denominazione di Accademia di Modena. Dopo che aveva iniziato la sua attività, essa discusse nelle riunioni del 21 Febbraio e del 13 Marzo 1684 delle costituzioni e dell’“Impresa” nonché della denominazione. Fra le varie proposte fu presentata anche quella di dotare l’Accademia di un simbolo che rappresentasse l’armonia nella varietà degli accordi. Perciò gli accademici di Modena furono detti ‘Dissonanti’ con il motto “Digerit in numerum dissonantes”, per interpretare l’armonia nella norma. Nel centro dell’emblema un’aquila sovrasta una corona di alloro e fiancheggia rami di palma e le pende dal collo una cetra: il simbolo ricorda la tutela estense sulla istituzione. L’emblema originario fu poi modificato con l’inserzione delle prerogative ducali, ma quello che appare nella sala delle adunanze dell’Accademia l’antico emblema seicentesco nella forma primitiva.

Il periodo napoleonico

In periodo napoleonico l’attività venne allargata anche alle arti meccaniche. Personaggi di rango e letterati di lontani paesi richiesero di essere aggregati. Inoltre l’Accademia dei Peloritani di Messina chiese di avviare corrispondenza con l’Accademia di Modena e nel 1728 seguì l’aggregazione fra le due Accademie. Ne fu artefice Ludovico Antonio Muratori. Negli statuti del 1817, 1826, 1841 il nome dell’Ente diviene: “Reale Accademia di Scienze Lettere e Arti”. Il titolo reale sostituisce quello ducale per le prerogative attribuite a Francesco IV d’Este, di Principe reale d’Ungheria e di Boemia, oltre che Duca di Modena. Il carattere statale dell’Ente si conferma con l’avvento del Regno d’Italia, con lo Statuto del 1860, e poi decisamente con gli statuti del 1910 e del 1934. Nella legislazione italiana ebbe costantemente un posto tra le primarie consorelle sottoposte alla disciplina governativa (fra le dieci reali accademie di prima categoria).

Il XX secolo

La Commissione per la riforma dello Statuto ribadì, nel 1910, il carattere statale della Accademia come ente di alta cultura: dalla ispirazione e protezione governativa alla approvazione degli statuti, dal titolo premesso alla denominazione, agli assegni annui sul bilancio dello Stato, dalla procedura per le nomine dei soci che si conclude con decreti statali, all’inserzione dell’elenco degli aggregati nelle pubblicazioni ufficiali, alla inclusione dell’Accademia tra i pubblici stabilimenti alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione. Il 5 Marzo 1959, in concomitanza con l’approvazione del nuovo Statuto, all’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena viene attribuito il titolo di Accademia Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti, con Decreto del Presidente della Repubblica”. Per maggiori info, a questo link è possibile accedere al sito dell’ente  
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Ancora 20 posti disponibili per la prima edizione dell’hackathon targato Lapam che si terrà nelle due giornate di MoRe Impresa Festival festival. Innovazione, creatività e condivisione, sono queste le parole chiave che meglio esprimono l’esperienza di un hackathon, una maratona di cervelli dove ragazzi e ragazze si sfidano per cercare di trovare una soluzione ai grandi temi di attualità. Così nasce MoRe Hack, la prima edizione dell’hackathon organizzato da Lapam Confartigianato Imprese Modena e Reggio Emilia, nell’ambito della due giorni del MoRe Festival del prossimo 13 e 14 dicembre 2019. I temi di questa prima edizione riguarderanno: – Il centro storico del futuro: come far sì che il centro storico torni ad essere il punto  nevralgico della vita cittadina, aiutando commercianti e artigiani a innovarsi anche creando sinergia tra fisico e digitale. – Networking: Un’idea, un sistema o un metodo (digitale o no) per far si che le nostre imprese del territorio riescano a fare networking, conoscersi e avviare nuove collaborazioni B2B. I  partecipanti, divisi in gruppi da cinque, avranno un giorno e mezzo per sviluppare uno di questi due temi con l’obiettivo di presentare la propria idea alla giuria Lapam e provare a vincere 5 tablet.  Come partecipare? L’hackathon è aperto a ragazzi e ragazze in un’età compresa tra i 18 e i  35 anni. Per iscriversi clicca qui, c’è tempo sino al 20 novembre.